Lucrezia dormiva, mentre lui era rientrato nelle sue stanze dopo averla lasciata qualche ora prima, in seguito ad una delle sue consuete visite dove il piacere lo sopraffaceva e quella figlia adolescente diventava per lui oggetto di un desiderio cieco, buio e tanto smanioso da non poter essere dominato. Diverso era passare notti d’amore e di divertimento con le sue amanti favorite, ma con Lucrezia era un’altra cosa. Il demone folle del possesso si impadroniva di lui come in un agguato improvviso alla preda quando egli andava a caccia nell’agro romano, con la sua corte dietro e i cani che straziavano la selvaggina quando la trovavano. E lui ad assistere impassibile, con una crudeltà che quasi gli bloccava le giunture e gli impediva di proseguire a cavallo staccandosi da quella scena orribile, eppure così vera. Quel pomeriggio aveva disturbato, perché sì questa era la verità, la serenità della sua piccola Lucrezia, se ne era poi andato in fretta perché ambasciatori dei reali spagnoli lo stavano aspettando per perorare un’alleanza che egli non voleva.
Li ascoltava parlare ma sentiva solo il suono delle loro parole, perché la sua mente era ancora avvolta nelle spire di quel piacere innaturale e noto che lo aveva sedotto e già un pentimento oscuro, un rancore lontano come colui che lotta nel sogno coi suoi fantasmi, lo aveva intimamente preso e gli impediva ora di prendere parte alla trama politica che gli si sgranava davanti come la tela maligna di un ragno velenoso, piuttosto che come la conduzione di un buon pontificato, retto al servizio del Regno… Il Regno, quel Regno di Dio tanto nominato nel ritmo delle liturgie estenuanti che presiedeva, quel Regno di Dio dov’era quando lui toglieva il respiro a quella sua figlia adorata, che vedeva soffrire sotto alle sue mani pesanti da rapace, più che da padre? Una figlia agguantata, e non certo accarezzata, anche se lui sempre ammantava le sue incursioni come consuete “coccole di padre”. Si scosse: uno dei legati aveva in dono da madre natura una voce tanto stridula da trapanargli il cervello mentre, a carte geografiche spiegate, tentava di mostrargli quali vantaggi territoriali ne avrebbe ricavato il suo Governo Pontificio. Le linee sulla cartina geografica si fondevano sotto al suo sguardo di padre e re, mentre pianure, monti, fiumi e piccole case disegnate in più o meno grandi villaggi diventavano un unico colore indistinto e spento. Il Regno, il Regno, il Regno… le tempie gli battevano come tamburi… Si alzò dal suo scranno con una pesantezza tale come se avesse membra di pietra, nuovamente usando quel “noi” che secoli di cerimoniale gli avevano consegnato fieri: “Noi delibereremo, pregheremo lo Spirito per comprendere quale Via di alleanza imboccheremo o verso quale conquista ci muoveremo. Ora vi congediamo impartendovi la Santa Benedizione di Pietro… In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti”…
Scese i tre gradini dl soglio, raccolse il suo mantello troppo lungo come le spire di un serpente acciambellato sotto al sole di agosto e uscì dal salone tra lo stupore generale degli astanti che videro un uomo confuso e prostrato, prima di un pontefice arrogante e potente che impugnava le sorti di un’alleanza tra sovrani.
Alessandro si tolse con lentezza quel velluto pesante di dosso nell’anticamera precedente il salone, mentre l’azzurro del cielo della volta decorata gli permetteva ancora un po’ di respiro. Ansimava pesantemente per una fame d’aria che lo aveva colto d’improvviso. Si avviò ricurvo per gli ampi corridoi verso il giardino, con passi di pietra e polmoni chiusi. La bocca… la bocca gli rimaneva semiaperta, come ad ornare il volto di un uomo atterrito che il pittore di corte atteggiasse quale smorfia concordata al fine di creare un’allegoria da ritrarre.
Mentre camminava pesante, si chiese di quale vizio poteva essere allegoria il suo volto in quel preciso momento: l’ira, l’accidia, l’invidia, la lussuria? Tutto, si disse, tutto poveva essere rintracciato nel sembiante di un uomo che rientrava nella camera di una figlia stupenda , al colmo della consapevolezza di averla stropicciata ancora nel suo candore di giglio appena sbocciato. Attraversò velocemente i giardini, entrò dalla parte secondaria del grande palazzo attiguo dove si trovavano gli appartamenti in cui aveva sistemato la ragazzina, la sua nutrice e alcune compagne che allietassero con danze e giochi fanciulleschi le sue giornate. Sì, perché lui lo sapeva, lei era pur sempre una bambina innocente e pronta ad entusiasmarsi per una gita al fiume, un gioco di palla sul prato, uno scambio di confidenze e risate tra campagne che parlavano del primo sorriso rubato a un paggetto compiacente. Fece cenno alla nutrice Adriana che uscisse dalla stanza del grande baldacchino dove Lucrezia già dormiva profondamente. La donna uscì, troppo avvezza ad obbedire al gesto imperioso di un uomo già in preda alla brama smaniosa che gli bruciava la carne. Abbassò quindi lo sguardo, chiudendosi istintivamente la vestaglia mentre usciva scomparendo a testa bassa e dando il passo al pontefice padre; eppure, incrociando per un istante il suo sguardo, alla donna il cuore balzò violento nel petto cogliendo, al posto dell’orgoglio indiscusso di un padrone di corpi, la mestizia di un uomo perso che entrasse a cercare rimedio piuttosto che soddisfazione.
La porta si chiuse e Alessandro, guardando il petto giovane coperto dalla camicia da notte alzarsi e abbassarsi nel dolce riposo del suo respiro, si trovò a inginocchiarsi all’angolo del letto della ragazza dove solo il biondo dei suoi riccioli sparsi sul cuscino riusciva a raccogliere il chiarore di un raggio di luna che filtrava dal finestrone.
“Signore Mio Dio, Padre di quel Regno di cui siete Signore e Maestro sulla Terra di una Gerusalemme che io solo so quanto sto disonorando… Abbiate pietà, in questa notte così scura, dell’unico raggio di luna a cui posso ancora aggrapparmi per sperare il Vostro perdono. Ho peccato, mio Signore, stesso Dio degli eserciti degli Israeliti e degli eserciti che io stesso conduco alla guerra, togliendo padri a famiglie di contadini affamati, portando carestia e sterminio in luoghi dove Voi sulla terra volevate io costruissi solo la Vostra pace di Buon Pastore mansueto. Io invece, al Vostro cospetto, lupo che sbrana il Vostro umile gregge, che affonda le zanne nelle teneri carni di quelle creature che Voi avete affidato a me perché io le difendessi fino al Vostro Ritorno.
Ascoltatemi, in questo rantolo di pentimento che mi esce strozzato in tanto buio così tetro, dove sento tutto il peso dei miei peccati che non so più reggere, quando penso a quanto dolore la mia voglia smodata può arrecare. Vi presento il terrore della mia piccola dolcissima Lucrezia, quando viene strappata ai suoi teneri trastulli innocenti per essere portata al mio piacere scomposto che solo si sazia pasteggiando sul suo corpo indifeso.
Perdonate la mia follia perversa, che non so fermare prima che io mi sia soddisfatto… Perdonate quel mio orgoglio di maschio cieco che non conosce confine… Perdonate il mio sguardo che fruga avido dove Voi avevate deciso, per imperscrutabile giudizio, che non avrebbe mai dovuto posarsi.
Sappiate che io mi riconosco degno delle più alte fiamme dell’inferno, molto più maestose delle ben più misere fiaccole del mio ardore virile quando mi approccio a questa creatura.
Accoglietemi, Signore, Dio grande e umile, mentre mi prostro davanti a Voi come Figlio che muore in croce, come Padre che resuscita , come Spirito che consola… E consolate il mio strazio di padre indegno… e perdonate quello che non vorrei fare, CHE NON VORREI FARLE!
Vi imploro, mio Signore, se ancora una volta posso osare come Vostro indegno figlio…”
Così pregava il padre a voce bassissima accanto al suo letto. Lucrezia dolcemente si girò sul fianco destro dandogli le spalle: chissà, si chiese Alessandro, se mai in un giorno diventata donna, certamente piena di tanto rancore, avrebbe mai immaginato che lui, una notte, aveva pregato così al suo capezzale, sentendosi solo un padre che aveva perduto la strada e ora la voleva amare di una misura diversa, buona, pigiata, scossa e traboccante.