L’aveva fatta chiamare il papa, suo padre. Giaceva in un letto imponente, servito dai paggi che si accalcavano attorno a lui nella penombra umida dell’estate romana, dove il caldo toglieva il respiro e i veli bianchi del baldacchino a malapena potevano difendere il malato dal costante attacco degli insetti che sempre cercavano un corpo caldo e cosparso di sudore per la febbre. “E’ malaria” le aveva detto subito il medico di corte quando l’aveva vista passare per i corridoi, più come una duchessa che come una figlia affranta. Conosceva, quel medico, il suo piglio di granduchessa. Sapeva che a Lucrezia non si poteva mentire: troppo acuto il suo sguardo sulle cose, troppo intuitiva la sua fronte spesso corrugata sotto ai riccioli biondi acconciati. Le disse subito: “Mia Signora, Sua Santità è gravissimo! Temo per lui, la malaria spesso non risparmia, lo sapete bene…”.
Lucrezia lo ascoltava a malapena, continuava a procedere per i lunghi corridoi, eccessivamente luminosi, dicendogli solo: “Fatemi strada, portatemi da lui…”, come se ogni parola fosse di troppo alla sua consapevolezza di figlia che stava per perdere il padre e, nel suo caso, un padre per il quale certo nutriva sentimenti contrastanti.
Per fortuna sapeva che il fratello, Cesare, era appena ripartito dopo aver visitato anche lui il genitore morente: sarebbe stato troppo per lei affrontare anche il dolore riflesso che avrebbe visto negli occhi di lui o, peggio ancora, l’assenza di dolore totale che solo lei, tra tanti, avrebbe riconosciuto sotto le sue esternazioni eccessive di strazio filiale. Entrò dunque al capezzale di quell’uomo, sapendo bene che quello era il momento più temuto della sua intera esistenza: quante volte aveva pensato alla morte di quel padre difficile, un padre che era stato uomo del troppo in tutto, nell’amore come nella cavalleria, nelle benedizioni come nella cruenta arte della guerra e, soprattutto, nella dissimulazione come nell’abbandono alla lussuria… Per anni ed anni aveva avuto da gestire i sentimenti contrastanti che nutriva per lui: il suo tenero e spontaneo amore di figlia che sorgeva come la luna nelle notti più scure e, al contempo, la torbida percezione dei suoi sensi simile al colore di cui si tingevano i canali di irrigazione della sua campagna estense quando la pioggia li rendeva limacciosi, trasformando i campi in specchi di palude pieni di zanzare e di miasmi soffocanti. Detestava che la sua bella campagna, così piacevole nel tempo assolato del raccolto, diventasse un’unica grande marcita nelle mezze stagioni, tempo dove solo il fango sembrava dominare. Ma ecco, mentre varcava la soglia della camera del padre morente, dentro si sentiva fango, colore indistinto di putrida acqua che anni ed anni di limpido governo al fianco del terzo marito Alfonso non erano bastati a scacciar fuori dal suo terrore di bimba e ragazzina, malconcia e compromessa. Lei, l’ormai amata e sicura signora di Ferrara, madre di figli e signora di eserciti, doveva risentire lo sporco del fango dentro, mani di fango che la toccavano, colori lenti nell’umido che avvolge, buio soffuso in spazi del ricordo e lui, suo padre, greve e vittorioso nel suo peso di cardinale, pontefice potente, omaggiato da tutti, incurante del bene deciso da altri e signore di un male che solo lui costruiva, quando varcava le porte del suo palazzo di Santa Maria in Portico attiguo ai Palazzi Vaticani. Lì insieme vivevano lei, sua figlia dodicenne, la sua favorita ufficiale Giulia la Farnese e la nutrice Adriana con tante fanciulle, sue compagne di giochi, piccoli fiori inermi che di tanto in tanto il piede pesante di quell’uomo schiacciava a piacimento senza un motivo, solo per noia o per voluttà scadente. Pure lei era tra quei fiori, fiori travolti dal fango come nei suoi agri prima ridenti, frutti marciti per essere stati buttati troppo presto in grandi ceste di raccolta invase dall’acqua.
Lo sentì ansimare per la febbre, rantolare per la sete, tremare sotto alle coltri leggere… Le gambe le si fecero molli e improvvisamente sentì la nausea che le saliva alla bocca dello stomaco e anche il suo cervello ne era invaso.
Con una voce impastata, che si faceva largo tra il fango che le era salito alla gola, ingiunse al medico che le stava appresso : “Fate uscire tutti ed uscite anche voi!”. Sentì il medico impartire quell’ordine, sentì la porta pesante chiudersi alle sue spalle, sentì il silenzio doloroso che l’avvolgeva, rotto solo dall’ansimare del moribondo. Si accasciò su uno scranno vicino al suo letto, forse quello del medico stesso che lo vegliava. Era certa che lui non l’avrebbe riconosciuta: da ore ormai aveva perso conoscenza, così le avevano sussurrato i paggi uscendo in punta di piedi… Lo guardò, chiamando a raccolta le ultime energie che le restavano per dominare i conati di vomito che le salivano dallo stomaco…
Quante volte aveva pensato a come sarebbe morto quell’uomo che, dopo averle donato la vita una prima volta, le aveva regalato tante morti asfissianti in carezze pressanti e mani che la frugavano in punti dove avrebbe saputo, solo poi, che poteva nascere il piacere più grande. Ma allora no, altri rantoli, quelli della soddisfazione maschile che egli ne traeva, quelli che nascevano per tutto quello che le rubava smanioso… altri rantoli comparivano in lui, fino a lasciarlo spossato e vinto, facendole pensare che egli stesse molto male, per poi riprendersi con una tracotanza assurda mentre la lasciava lì senza una parola di commiato, impaurita, scomposta e spenta. In quel momento allora diventava come una terra arsa per la poca acqua, con stoppie aride che non davano cibo neanche agli armenti. Così i suoi fianchi di prima adolescente, così i suoi piccoli seni dai capezzoli infossati che si drizzavano appena, così le sue labbra aride che rifiutavano l’acqua per ore dopo queste incursioni: tutto ora come stoppie aride perché il fango, quel fango, veniva dopo… nella notte, quando si ricordava che lei gli voleva bene e cercava di ricordarlo come tenero padre. E lì un po’ d’acqua, quella che riusciva finalmente a bere, le scorreva dentro e le stoppie in lei si animavano e tutto diventava piena pianura florida e poi… l’acqua era di nuovo troppa! Troppo si era fidata di lui come padre buono, e tante le sue domande incalzanti: forse lui faceva così perché lei gli aveva sorriso troppo o gentilmente gli aveva detto, andandogli incontro: “Entrate Padre, vi stavo aspettando…”. E tra il fango dei suoi pensieri si colpevolizzava dicendosi: “Sono stata io… troppo giovane, troppo bella, troppo figlia… forse troppo figlia? Ecco perché mi ha trasformato in un’amante, perché io sono fatta di fango e non sono stata chiara con lui…”.
Papa Alessandro, della famiglia Borgia, al secolo Rodrigo, le moriva ormai vicino. Per lei era solo suo padre, l’uomo che le aveva dato la vita, e adesso stava lì accanto a lei come inerme, privo di ogni potere se non quello di finire una vita troppo ricca di storie, patimenti, rapine… Moriva come muore l’ultimo contadino, assistito da una figlia al capezzale, ma lei non si sentiva di adoperarsi amorevolmente, ancora troppa rabbia e veleno dentro. Veleno come quello che egli usava per eliminare avversari temuti o pedine scomode sulla scacchiera del suo mondo dorato. Nel frattempo una mosca, forse più impertinente delle altre, si appoggiò sulle labbra arse del moribondo; con un moto spontaneo lei la cacciò chinandosi su di lui e, nel farlo, si accorse di avergli sfiorato la bocca, quella bocca tanto temuta che però l’aveva anche chiamata tante volte per nome. Fu così che la “piccola” Lucrezia si ritrovò tra i suoi denti serrati: “Kyrie Eleisson, Kyrie Eleisson, Pietà Signore, dei miei fianchi stanchi che chiedono pace, dei miei ricordi impietosi che ritornano sempre, Kyrie Eleisson dell’anima di mio padre che siede sul trono del tuo santo Pietro, tanto indegnamente, lo so. Ricordati del solo istante, ti prego, se ce n’è mai stato uno, in cui egli ha capito che stava facendo le Tue veci sulla terra… Vicario, vicario Tuo, Signore Cristo che regni sulla nostra carne nata dal fango, quel fango che ci rende figli di Adamo. Mio padre come me… entrambi nati dal fango!”.
Sentì il suo fango benedetto, una miscela di terra mista ad acqua ristoratrice! E allora capì: sapeva ormai piangere per quel padre oppressore e, mentre piegava il capo cercando disperatamente la sua mano abbandonata come per farsi fare un’ultima tenera carezza, Lucrezia si lasciò andare a occhi chiusi su quella coperta madida. Lo aveva finalmente accolto nel cerchio della sua comprensione e ora lo lasciava andare perché anche lui, nato dal fango e figlio di Dio,prendesse la sua strada. Sentì di essergli sorella, prima che figlia: “Kyrie Eleisson, Christe Eleisson, Kyrie Eleisson… “, mentre la sera umile scendeva.