“Le tre madri” (Fabrizio De Andrè”)
Dalla fantasia spirituale di De Andrè un’immagine nuova di tre strane marie sotto la croce, marie come sinomimo quasi di “madri” qui…
Veder morire un figlio fa nascere un dialogo crudo, una lauda contemporanea e dissonante senza alcuna rima, un dialogo sull’urgenza dettata da braccia che vogliono accogliere il proprio figlio, come quando era bambino e lo si teneva in braccio.
Le braccia, nel loro spasmo di vuoto a cui non è concesso di staccare il corpo amato dalla croce, suggeriscono le parole stesse di un incontro che ha solo un oggetto, un doppio dolore da affrontare: quel dolore di figlio e la destinazione di una relazione: dove saranno tra poco quei figli? Non certo più tra le loro braccia.
Madre di Tito:
“Tito, non sei figlio di Dio,
ma c’è chi muore nel dirti addio”.
Questa madre ha ben capito che vicino a suo figlio muore il figlio di Dio, forse ha sentito il loro dialogo… Non sa affatto, e forse non le interesserebbe, di essere la madre del Buon Ladrone, colui che gode per primo della Misericordia infinita. Dolcissima la sua pretesa materna di intrufolarsi ancora nel cuore del figlio, presumibilmente tutto preso dal bagno d’amore e pentimento che vive vicino a Gesù, il suo Salvatore. Sembra ricordargli che lei c’è a dargli un addio quaggiù, nonostante che lui sia solo un uono, non il figlio di Dio… Non vuole disprezzare Maria che lo sta facendo vicino a lei, vuole solo dirgli che un semplice uomo ha già tanta dignità da avere una madre a salutarlo nell’ora estrema…
Madre di Dimaco:
“Dimaco, ignori chi fu tuo padre,
ma più di te muore tua madre”.
E’ addirittura possibile, sembra dire la madre di Dimaco, è addirittura possibile, nell’ora estrema della pena, riscattare la propria storia, quella storia infamante che ha unito madre e figlio?
Lei glielo ricorda, chissà quante volte ne avranno parlato o lui glielo avrà rinfacciato: un padre assente, di cui ignorare anche l’identità! Un figlio povero, senza padre, per mille motivi: figlio di una violenza occasionale, di un abbandono di cui non si può parlare, di un uomo che ha cancellato comunque le sue tracce in ogni modo… Ma, sembra dirgli lei ora, “Se non sono riuscita a darti un padre, questo non mi ha impedito di esserti madre e sappi che ora io muoio più di te”… Questa madre coglie la radice più profonda dello strazio femminile di fronte al dolore di un figlio, quello che prova ogni donna, forse il tentativo più lecito di non interrompere quella fusione che nasce nel ventre: sostituirsi al figlio che soffre, formulare una preghiera che chiede “fai soffrire così me al posto suo”…
Le due madri:
“Con troppe lacrime piangi, Maria,
solo l’immagine d’un’agonia:
sai che alla vita, nel terzo giorno,
il figlio tuo farà ritorno:
lascia noi piangere, un po’ più forte,
chi non risorgerà più dalla morte”.
Ma insieme le due madri contano quasi le lacrime di Maria, troppe per una madre che sa che dopo tre giorni suo figlio tornerà, troppe per chi ha di fronte solo l’immagine dell’agonia, non la sua realtà piena di uomo che muore per sempre. Lettura superficiale, lettura suggerita dalla cecità del dolore e dalla non consapevolezza dell’agonia vera di un uomo Dio che muore in croce come gli altri adesso. Il dopo sarà dopo… tre giorni, pochissimo per quelle due madri, un’eternità per Maria che forse si chiede anche quale sarà il suo rapporto con un figlio risorto…
Madre di Gesù:
“Piango di lui ciò che mi è tolto,
le braccia magre, la fronte, il volto,
ogni sua vita che vive ancora,
che vedo spegnersi ora per ora.
Figlio nel sangue, figlio nel cuore,
e chi ti chiama – Nostro Signore -,
nella fatica del tuo sorriso
cerca un ritaglio di Paradiso.
Per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre,
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce.
Non fossi stato figlio di Dio
t’avrei ancora per figlio mio”.
E Maria risponde, con gentile fermezza, non raccoglie quel duro accento, risponde con la lucidità e la concretezza di un’anima che riposa da sempre in un fiat… lungo allenamento a spade che trafiggono l’anima, ad aspettare il tempo di una presentazione decisa da altri, a perdere il figlio in una carovana, a vederlo disprezzato dopo un miracolo o dopo una carezza ad un uomo o una donna che soffrono… Maria sa dove si appoggia il suo “avvenga di me…”, e risponde alle donne “piango di lui…” descrivendone la fisicità sconvolta dalla vita che lo lascia.
Solo dopo si rivolge direttamente al Figlio, in un tu accorato difficile da sostenere… E Maria coglie subito quali sono i due beni che le restano ancora di Lui, ancora per poco: il Sangue e il Cuore. Il primo, quel sangue caldo, tra poco le sarà tolto, il secondo intuisce che le resterà, ma non sa come… Non lo sa neanche lei, è questo che non hanno capito di lei le altre due madri. Poco importa, ora sotto quella croce, che anche altri lo vedano un Dio che muore e vogliano carpirgli un sorriso a garanzia del Paradiso…
Ricorda il Sangue, con cui l’ha tessuto e nutrito nel buio del suo ventre, in un buio cieco che si chiede, nel tempo dell’attesa, che volto avrà quel figlio, quale timbro di voce, quale sguardo sorridente nel colore degli occhi, quale risata sommessa o sonora, quale occasione per scoppiare a ridere o per trovare motivo di piangere, quale motivo per arrabbiarsi istantaneamente o quale carezza capace di calmarlo subito… Questo si chiede il ventre cieco di ogni madre per nove mesi, Maria sembra capire che il suo chiedeva molto di più: con quale Amore avrebbe spartito quel Figlio che aveva seme divino… ?E stare sotto la croce ora per lei diviene un nuovo grembo, dove chiamarlo Amore…
C’è ancora bisogno di chiamare “amore” un figlio, ancora per poco, ancora mentre un lembo di vita resiste, per parlare a un uomo vivo che possa continuare a sentire… Amore, amore, amore… come una ninna ninna, amore come carezza che serve a entrambi, amore come una mano che sistema i capelli scomposti di un bambino quando si ferma dopo la concitazione del gioco, amore come asciugare qualche goccia di sangue uscita da un ginocchio sbucciato cadendo, amore come il cibo preparato con cura in lunghe ore di solitudine che pensano solo al ritorno della sera, amore come il silenzio di una tenda tirata per prolungare il riposo di un figlio stanco che sta dormendo…
Amore, amore, amore… che traghetta Maria, umanissima, a chiedersi se quel figlio non fosse stato figlio di Dio, come sarebbe andata… E ne sgorga un’espressione popolare “t’avrei ancora per figlio mio”, PER figlio mio, quel PER indica un COME già consapevole che suo Figlio era passato attraverso di lei, ma è COME figlio suo, non è solo figlio suo… A Maria rimane l’IN, Maria dopo tre giorni potrà finalmente riposare nella pace del Risorto come ogni altro uomo, diversa da tutti perché spetterà a lei prendere gli altri per mano e condurli a quella calma trovata.
Saranno proprio quelle altre due madri ad essere condotte per prime nella nuova dimora? Non lo sappiamo, siamo certi solo che Maria lo farà… Approdata ad un IN che in questo momento la sua umanità provata si sta guadagnando col coraggio di staccarsi da un PER: “ PER FIGLIO MIO”!