La sposa di Cana
Capire quel figlio era stato semplice all’inizio: era il secondogenito, quando l’esperienza di essere già stata madre regala alle mamme parole da bambino, rende leste le mani nell’accudirlo, previene i bisogni o ricerca cibi alternativi sapendo già cosa piace o cosa non piace ai piccoli. Crescere quel bambino, tanto diverso dal suo primogenito, era stato per lei un gioco semplice come ripercorrere dei passi che già conosceva. Si era sentita riconfermata nel suo essere ormai donna adulta, dove una sgridata valeva come una carezza data ai figli e significava soprattutto “io so impormi, perché questo è figlio mio…”
Poi via via le cose erano cambiate e la dolcezza del loro capirsi era diventata una quotidiana fatica di sguardi, di parole brusche malcelate che crescevano in quel figlio come la prima barba che compariva a fargli ombra sulle guance o come i ciuffi di capelli ribelli che non aveva più la libertà di sistemargli con le mani sotto il sole del mattino, quando lo preparava prima che iniziasse la sua giornata. Era un maschio, e come il fratello maggiore, ora che stava crescendo scivolava pian piano nel mondo degli uomini, della sinagoga da frequentare il sabato dove cominciare a masticare il Libro della Legge, dei discorsi sulla pubblica piazza scambiati tra uomini, dei primi confronti su un futuro che quasi sicuramente lo avrebbe promesso sposo ad una vergine prescelta dalla famiglia, assegnato al medesimo lavoro del padre. Anche lui come gli altri ragazzi sarebbe stato un segno certo di una casa da rispettare e frutto di un seme benedetto da continuare a spargere nella discendenza di un nome…
Ma quel figlio per lei era uno struggimento continuo perché la sua asprezza adolescenziale le parlava di un’altra rabbia che covava in lui e che non era semplicemente la fatica di diventare grande e di sciogliersi con un fisiologico dolore dal suo tenero abbraccio di madre. Era piuttosto la rabbia di essere il secondo, in un mondo subalterno all’universo primo del fratello che, più grande che senza alcun merito, aveva ereditato i primi onori di una casa e di una tribù a cui apparteneva la loro famiglia paterna.
Il loro padre: lei, chiamandolo così, dimenticava quasi che era lo stesso ragazzo pallido e confuso che lei, più pallida e tremante di lui, aveva sposato a Cana vent’anni prima, in una festa suntuosa, come le sue amiche per anni affermarono che non ce n’erano state di simili nei villaggi vicini per molto tempo in seguito.
Suo marito, che ora era padre di quei due figli diversi, del primo come di questo secondo scuro e rabbioso, e di altre tre femmine che avevano avuto in seguito e che rappresentavano il leggero vociare di donna presente ad ogni ora, capace di mitigare il rancore silenzioso maschile che spesso scorreva nella loro casa.
Anche quella sera, in cui coltivava tra sé questi pensieri e analizzava il modo diverso in cui doveva rapportarsi coi suoi cinque figli, il secondogenito, come altre volte, la chiamò “Donna…” rivolgendole una richiesta ordinaria, all’apparenza normale… Ma irrispettoso era il tono irritato che aveva usato, e come era uscito subito di casa senza aspettare la sua risposta per lui forse troppo lenta, con quella sua furia repressa che le toglieva il fiato per fargli capire che, seppur donna, lei rimaneva sua madre e meritava il dovuto rispetto. Anche la Legge chiedeva il rispetto dei genitori come comandamento: eppure quel figlio la chiamava “donna” con un tono che le trafiggeva il cuore come una lama.
“Donna”… non poteva negarlo, erano vent’anni che quella parola le risuonava dentro: nel giorno del suo matrimonio l’aveva udita per la prima volta da un altro figlio che aveva chiamato così sua madre, addirittura dicendole “ Donna, che vuoi da me? non è ancora giunta la mia ora”. Parole sibilline, che sul momento non aveva certo compreso. Dall’alto del suo baldacchino di sposa, dove partecipava a quel banchetto che la vedeva stranamente protagonista, era riuscita a capire, ormai a festa avanzata, che qualcosa non stava funzionando come avrebbe dovuto. Era scesa senza dar nell’occhio e quasi confondendosi tra gli invitati, alla debita distanza che le era consentita come donna, aveva visto il gruppetto di quei conoscenti galilei che parlavano con alcuni dei servitori del banchetto… Era riuscita, scivolando leggera, ad avvicinarsi alla madre, a quel figlio adulto vicino a lei, e al piccolo gruppo di uomini che li accompagnava. E lì le aveva visto un particolare sorriso, che non avrebbe mai dimenticato, mentre parlava al figlio… Era riuscita anche a capire cosa gli aveva sussurrato piano: “non hanno vino”… Poi un tramescare in fondo alla sala, e giare, e servi, e travasi veloci…
Suo marito poi era stato chiamato velocemente da alcuni parenti e aveva parlato col maestro di tavola, l’incaricato assoldato per organizzare quel banchetto così costoso che le loro famiglie da anni preparavano, in un risparmio quotidiano teso solo allo sfarzo di quel giorno. Tutto pensato per la loro nuova famiglia che sarebbe diventata l’ennesimo anello di una lunga catena di discendenze: questo meritava lo sfarzo, il continuare una discendenza, questo valeva un matrimonio con cibi pregiati, vini speciali, suoni, danze, risate e canti. Aveva capito, sia dall’espressione preoccupata di suo marito, che dalle parole che aveva sentito, che quello che doveva essere un grande onore per le loro famiglia stava per trasformarsi nella vergogna di non aver più un vino alcuno per rallegrare i propri invitati, infausto presagio di mancata felicità sulla nuova vita insieme che stavano cominciando. Ma il vino aveva ricominciato, come per incanto, a scorrere sulle tavole, e i commensali a rallegrarsi della sua egregia qualità pur servito verso la fine delle portate, mentre le rughe sulla fronte di suo marito si erano spianate dolcemente e lei, cercata tra gli invitati, era stata ricondotta al suo posto d’onore.
A malincuore si era quindi allontanata dalla visione del viso di quella madre, da quel gioco di sguardi con suo figlio, da un evento accaduto che non sapeva spiegarsi e che aveva a che fare con quel gioco di battute che i due si erano scambiati a fior di labbra, da quel “Donna” che ora ritrovava anche lei in un suo figlio arrabbiato, da quel comando ubbidiente che una madre aveva saputo dare al figlio. Per vent’anni, ad ogni figlio che le nasceva, nei tanti momenti in cui conosceva la fatica del crescerlo, o la gioia di un primo vagito o di una piccola parola, come pure di un sorriso improvviso e luminoso da bambino… beh, ogni volta, aveva ripensato a quella madre e a quel figlio che le avevano donato il suo primo senso materno. Era certa che, per suo marito, forse quei due incredibili personaggi erano stati solo strumenti per salvare l’onore e garantire eterna rispettabilità presso amici e parenti. Per lei no, l’onore del casato era roba di uomini, per lei valeva solo quel reciproco gioco di obbedienza tra madre e figlio, che significava un uguale vicendevole comando. Si era chiesta a lungo nel silenzio delle sue notti, quando l’educare i suoi figli le muoveva domande a cui non sapeva dare risposta al punto da toglierle il sonno, si era chiesta a lungo se quel giorno avesse visto un’eccessiva paritarietà tra una madre e un figlio, perché lei invece era certa che sono i figli che devono obbedire ai genitori, e questo era sempre accaduto e sempre sarebbe dovuto accadere, a lei, ai suoi figli e ai figli dei suoi figli. Eppure quella donna, dagli occhi incredibilmente dolci come carezze e dalla voce ferma, aveva anche obbedito, non solo ordinato a suo figlio, mentre suggeriva ai servi “Fate quello che vi dirà”… Cosa sapeva di suo figlio che anche lei, ora, non sapesse dei suoi? E poi, un altro fatto avveniva nella sua esperienza di donna, cioè spesso era suo marito ad intervenire tra lei e quel suo figlio sgarbato e inquieto ed era lui a porre la parola del comando ultimo che li slegava da un eccessivo legame di rancore reciproco .
Ma un padre a Cana non c’era, lei almeno non l’aveva visto con loro… Eppure era infinito l’equilibrio che quella madre e quel figlio riuscivano a tenere, senza intervento esterno, solo guardandosi e riconoscendo la loro relazione come unica forza per mantenersi ciascuno nel proprio debito posto. Si stupiva, mentre quella sera stendeva i tappeti per la notte e spianava bene anche quello per il figlio appena uscito, immerso nel suo mondo di rabbia e di furore verso il mondo. Se è la relazione che regola la possibilità di andar d’accordo anche con un figlio, come riuscirò a rapportarmi con questo ragazzo di cui non conosco a fondo il cuore? Ricordò ancora quella donna, Maria aveva sentito che la chiamavano alcuni nel gruppetto dei galilei… Maria aveva saputo parlare al cuore di suo figlio perché sicuramente lo aveva guardato e ascoltato molto, prima ancora di chiedergli di ascoltarla. Maria forse gli aveva mostrato il suo cuore, esponendosi al dramma di non essere compresa come stava accadendo a lei? Quella Maria le aveva fatto udire una voce potente, non necessariamente virile ed esterna, capace di creare un legame col figlio. E, nel suo essere madre, aveva rispettato il “tempo” ormai adulto del figlio esponendosi lei stessa, fragile, alla possibilità di un rifiuto, per diventare forte nella certezza di un’accoglienza. E il Figlio le aveva risposto, mostrando come l’amore tra loro potesse riaccendere anche una festa morente. Si scosse: il vino, è vero, il vino! Dopo aver steso i tappeti per la notte, si ricordò che doveva uscire ad attingere vino dall’anfora sotto il portico perché era ormai si era fatta ora di cena. Alle sue spalle, mentre era curva con la sua brocca in mano, i passi di suo figlio che stava rientrando…