La presentazione al Tempio di Maria.
Quando il maestrale gonfia gli abiti delle donne alla fontana oppure le tende che chiudono gli usci delle case senza impedire alla polvere gialla delle strade di entrarvi, è quello il momento della giornata in cui spesso mi ricordo, come una fitta al cuore, di quella mattina della mia infanzia in cui salivamo al Tempio per la mia presentazione. Solo oggi conosco il valore di quel gesto che ho compreso crescendo, ma di allora ricordo soprattutto particolari e impressioni di cui il mio corpo conserva ancora una memoria tanto viva. Ricordo l’affrettarsi dei miei piedini per stare dietro ai miei genitori e come faticassi a non inciampare in un abito troppo lungo che mia madre mi aveva cucito con ogni cura, eppure non mi piaceva tanto come i vestitini quotidiani che mi metteva e che potevo comodamente sporcare per giocare con gli altri bambini. Quel vestito era bello, da come mi dicevano tutte le altre donne mentre mia madre me lo provava nei giorni precedenti, ma era pesante… Ricordo come sembrava trascinarmi in basso mentre camminavo dietro a mio padre e mia madre e in fondo già si vedevano le belle pietre luccicanti del tempio nella luce del mattino… Anche allora, come oggi, soffiava il maestrale mattutino a cui il mio abito importante sembrava resistere, quasi mi dovessi già adattare a quelle pietre che di lì a poco avrei abitato.
Mi presentavano al tempio, ma anche mi avrebbero lasciato lì per un tempo di servizio al Signore in un luogo solitario e appartato che non avevo mai visto, ma non mi spaventava poi tanto.
Mia madre mi aveva preparato a quel momento e, anche se sentivo un certo dolore all’idea di separarmi da lei, avvertivo dentro una vibrazione strana per quel nuovo che andavo a incontrare, quel luogo di silenzio che avevo tanto immaginato senza sapergli ancora dare un colore e un odore. Ma ricordavo altro che si era impresso nel mio corpo per sempre quella mattina: la stretta di mano di mia madre, che mi porgeva una mano umida e sudata per l’emozione di quel passo che ci avrebbe separato e la straziava, e insieme la risolutezza dolce con cui mi teneva stretta e mi conduceva avanti in quella processione strana che mi pareva fosse preceduta quasi solo dalla gabbietta di colombe bianche che reggeva mio padre e, nell’ondulare della sua camminata, davvero precedeva fisicamente il nostro piccolo corteo. Le ricordo bene quelle due colombine con le quali avevo giocato dalla sera prima: avevano penne morbidissime e bianche di un candore che non ho più rivisto se non nella carne del mio Gesù quando nacque e, dopo che riuscì a lavarlo bene, mi mostrò una tenerezza di pelle morbida e candida come solo le penne di quelle due amiche di tanti anni prima mi avevano donato. Gesù, è ancora piccolo Gesù… Ma chissà come reagirebbe se gli raccontassi già di quella mattina in cui i miei genitori mi lasciarono al tempio: noi due, oggi così uniti, tanto che ci sembra impossibile separarci anche solo per un attimo .
Eppure nel Tempio, durante lo stesso rito anche per lui, il Vecchio Simeone mi ha detto che una spada mi trafiggerà l’anima. Penso spesso a quelle parole, non le ripeto mai ad alta voce e Gesù non può certo ricordarle, era troppo piccolo….
Che una spada abbia trafitto anche il cuore di mia madre Anna pensando che doveva lasciarmi lì nel tempio dopo che per tre anni mi aveva cullato, imboccato con i cibi più scelti, spazzolato i lunghi capelli, asciugato il volto rigato di pianto quando ero caduta o lavato le ginocchia sporche di terra perché giocavo con giochi inventati su una polvere piena di vita e animata dai sogni che vi disegnavo? Mia madre Anna… Come’era bella a fianco di un marito più anziano, mio padre, molto diverso da lei, ma che doveva amarla moltissimo da come le teneva la mano sulla spalla in segno di protezione. Fu in quel modo, lei piccola di statura e lui imponente a proteggerle nuca e testa con l’ombra delle sue braccia, che si presentarono al sacerdote. E in mezzo io, assieme alla cara gabbietta di colombe, pronta per salire quella lunga scala che sembrava una lingua fatta scivolare fuori da una bocca di colonne in alto, tanti denti di lucidi, quasi un’apertura che si spalancava a inghiottirmi o forse a parlarmi. Di fatto era una bocca aperta e piena, e il maestrale intanto sconvolgeva pietosamente una scena che, se fosse stata troppo fissa, sarebbe stata straziante per la commozione del distacco. In alto sentivo il sacerdote che cominciava a pronunciare formule rituali di accoglienza che mi accettavano all’interno della grande bocca, io bambina presentata e votata ormai ad un servizio quotidiano fatto di ore di cui non sapevo ancor nulla. Ma è vero anche che il tempo per una bimba di tre anni esiste diversamente, ora l’ho capito guardando bene il mio piccolo Gesù: esistono solo i momenti in cui la mamma si avvicina o si allontana, il pancino ha fame o si svuota, il sonno arriva e ti distende interrompendosi poi con un ritorno di vita e di voglia di sorriso o pianto… questo è il tempo che conosce un bambino di tre anni, questo conoscevo io. Ma ora, là dentro, dove la bianca bocca esterna sarebbe diventata viscera scura, di quale materia si sarebbero nutrite le ore? Danze di angeli, fumi di incenso, folle di luce e buio di tenebra… Quanti giochi avrei saputo inventare per fare spazio alla mia nuova compagna, la voglia di Dio, che avrei servito nell’accensione di un lume e nell’ombra di una colonna, quasi giocando a rimpiattino con la Sua presenza che appariva e scompariva dentro il mio desiderio di incontrarlo, un Dio così vicino che anche la nebbia degli oli profumati per il sacrificio avrebbe potuto annunciare, oppure sussurri che forse avrei sentito io sola, tutto uno sfiorare di vesti cinte da una presenza amata da troppi temuta, ma che a me non faceva alcuna paura.
Così quando Anna stava per lasciarmi la mano, mi agitai come per il bisogno di accelerarlo quel momento e di vederle presto quelle viscere dense in cui avrei abitato sola, ma piena di vita. Il sacerdote avvertì la mia agitazione, e si interruppe nel lungo profluvio di recitazione che sembrava interminabile. Con poche parole secche capì che sgridava mia madre e le ingiungeva di richiamarmi all’ordine, perché io mostrassi da subito più rispetto per il nuovo compito che dovevo iniziare. M’impaurì nascondendo il volto nelle sue vesti.
Mia madre allora si abbassò, con un gesto che non avrei mai dimenticato: mi parlò all’orecchio e mentre lo faceva, involontariamente, il velo di cui il suo capo era coperto creò una piccola tenda abitata per un attimo da noi due sole. Tenere e chiare anche le poche parole che mi disse e che ricordo ancora limpidamente: “Vedi Maria, il gioco nuovo sta per iniziare. Il sacerdote me lo ha detto, tu ora salirai le scale compunta e riposata, ma bisogna stare molto ferme perché altrimenti le tue colombine potrebbero spaventarsi … Dopo quando sarai là dentro, protetta dalla fuga delle colonne e da pareti spesse come braccia, danza pure come vorrai. E ricordati Maria, ad ogni passo di danza io sarò con te… Non temere le voci dure dei sacerdoti, fanno parte della danza. Sono il comando di aumentare il ritmo. Ora sali, Maria, presto ci rivedremo. E quando verremo a prenderti saprai compiere ogni genere di passo imparato là dentro. Balleremo insieme nel nostro giardino, nel sole, e tu mi insegnerai movenze nuove…”
Poi mia madre aprì la nostra tenda, e dolcemente mi spinse avanti. Sentì un leggero tremito che dal suo braccio si trasferì alla mia schiena, pensai che fosse stato lo sforzo di tenere la tenda chiusa o forse di immaginare passi di danza nuovi. Li imparerò, madre, dissi dentro di me, voltandomi a guardarla un’ultima volta. Lei mi sorrise e il suo sguardo era velato di pianto: pensai a come doveva dispiacerle il fatto di non poter venire con me a imparare la danza con Dio, ma ero felicissima perché presto avrei potuto insegnargliela io…
Salii le scale con una consapevolezza nuova ed una leggerezza tale che anche il mio vestitino pareva essere cambiato. Oggi, quando balliamo leggeri io e Gesù, penso spesso a come in quei mesi imparai a volteggiare tra le colonne, a mettere i piedi nel posto giusto: sempre mi veniva dato un bellissimo compagno per la danza, leggero e presente, ma un giorno capì che lo vedevo solo io. Un sacerdote infatti, passando, disse ad un altro dalla barba lunga: “sono mesi che la bambina rimane da sola, eppure si muove sorridendo sempre…”
Capisci ora, Gesù, dove tua madre a imparato a danzare sorridendo?