Quante volte han vacillato questi poveri piedi,
può dirlo solo la bocca saldata –
prova!
Puoi smuovere il chiodo micidiale –
prova!
Puoi alzare le cerniere d’acciaio,
sfiora la fronte fredda – così spesso ardente,
sollevale, se puoi, i capelli spenti
prendi in mano le dita di diamante
che non infileranno più un ditale.
Ronza
una mosca pigra
alla finestra in camera.
Sfrontato brilla il sole
contro il vetro a macchie.
Fiera
la ragnatela pende dal soffitto,
casalinga indolente, tra margherite,
stesa.
(Emily Dickinson, Traduzione di Silvia Bre)
Mi sembra splendida la dimensione corporea che la Dickinson descrive nella prima parte di questa particolare poesia, e tanto mi pare possa rivolgersi a un “altro da sé”, parlandogli da un corpo che si sta “cristallizzando”, un corpo bloccato da tanti gesti mancati.
E’ un corpo semi-paralizzato che viene guardato: bocca saldata, chiodo micidiale (fitte di dolore ovunque), cerniere d’acciaio (chiusure posturali), fonte fredda così spesso ardente (una febbre percepita), capelli spenti (perdita di lucentezza che non figura come esteriore problema di cura estetica, piuttosto tristezza interiore, carenza di nutrienti per corpo e anima…), dita di diamante irrigidite che sembrano non saper più lavorare (aver perso quasi ogni possibile manualità)…
Così il corpo dà segnali all’esterno, un corpo approdato e portato lì da piedi che vacillano, forse presto invitati ad ancorarsi ben a terra per sentirsi nuovamente sostegni veri di una fisicità concreta.
Ma la parola è “verbo” difficile qui.
Appare struggente quell’invito al “dire” come ardua emissione che si leva e lancia un invito accorato uscendo da un involucro ormai ibernato, chiedendo a se stesso e al corpo insieme: prova, puoi smuovere, puoi alzare, prendi in mano… Difficile distinguere se siano imperativi o esortativi più lievi, di fatto importa che conservino la forza commovente di implorazioni espresse.
Straordinariamente la parola diviene qui, proprio perché così generata dal corpo, “referente” e, paradossalmente, “codice” dell’invito-implorazione.
Non conosciamo direttamente però la risposta di questa alterità presente, che immagino sia, per la Dickinson, la sua stessa parola in dialogo con una parte di sé. Per me, in questa rilettura, una parola-in-relazione con un terapeuta o comunque con chi si prende cura rimanendo in tanta corporeità. Il referente ha comunque risposto, ed il risultato pare qui eccezionale: si è giunti al “qui e ora” della relazione, che ha permesso la “parola del corpo”, dove paradossalmente non si avverte neanche il bisogno di parlare di un noi, delle due figure, ma solo di quello sfondo che “gloriosamente” è la realtà e che solo un corpo “scongelato” può cogliere ora! “Ora” si avverte il ronzio di una mosca pigra, il calore del sole che macchia il vetro (per caso sporco? sottesa la metafora della casalinga indolente), lo splendido accorgersi che la casa non è perfetta, mentre prima le dita non avrebbero più usato il ditale… E infine “qui” il vedere una ragnatela dal soffitto, fiera, strano aggettivo per una ragnatela che si stende tra i disegni (margherite) della trama da cui è formata: la ragnatela, forse, come proiezione di un nuovo ordine interiore, in cui potersi “stendere fieri”?
Ecco ridate al corpo una nuova possibilità di parola piena, dignità e fierezza, ecco prati di margherite al posto di cerniere serrate, ecco bocche fiorite!