“La mia Dulcinea…”
In quella bettola il sole filtrava poco e se di un biondo si doveva parlare era quello ridotto del liquido sotto alla spuma dei tanti boccali di birra che spillavamo io e le mie compagne dietro al bancone sporco dall’uso del tempo: non era più il biondo dei raggi del sole e dei covoni del grano che ricordavo da bambina e da ragazza. La mia era sempre stata una vita da contadina, con tempi semplici da seguire piano: la fatica fisica che facevo curva nelle faccende dei campi non aveva a che fare con la fretta strana che ritrovavo ora nelle mani rozze di quegli uomini che mi frugavano le vesti.
Li ricordavo i campi di grano, nel loro maturare di giugno, e ricordavo anche la fatica di una schiena spezzata sempre ricurva a far covoni, come pure il dolore dei muscoli delle braccia che armeggiavano la falce come fosse un pennello per dipingere un nuovo disegno su quella terra che solcavamo per tagliar spighe. Poi tutto era diventato veloce, non più lento come i ritmi sacri delle stagioni, coi loro lavori, che sfamavano le nostre povere case di contadini. Un uomo, dai lineamenti incerti, era passato nel nostro villaggio e aveva portato via le donne più giovani per trasformarci in donne da bettola, piacere facile in mano a qualunque tipo di uomo che solo avesse gli scudi necessari che gli servivano per fare con noi quanto voleva. Ancora mi chiedo perché mio padre e i miei fratelli non mi avessero difesa quando quell’uomo con rudezza mi faceva sedere sul suo carro sgangherato e polveroso. Le mie amiche, strappate come me dalle loro case, piangevano e strepitavano disperate, alcune tentavano perfino di divincolarsi e scendere. Ma non c’erano braccia giù a riprenderle, nessun abbraccio noto di affetti consueti in cui potersi rifugiare e che rendesse ragione di quello che, a tutti gli effetti, diventava un rapimento di donne inermi. Le povere case del villaggio erano quasi tutte chiuse, e solo pochi padri o fratelli maggiori assistevano di lontano impassibili a questo carico di indifeso bestiame umano: ovunque un silenzio spettrale e impotente, un’imbavagliata vergogna che consegnava qualche bocca giovane e d’appetito ad un futuro posticcio e tremendo con l’unico scopo di alleviare i morsi della fame di chi rimaneva, e la magra speranza che, da quel lavoro sporco organizzato da altri, qualche scudo logoro sarebbe ritornato anche nel villaggio. Non seppi mai se questo accadeva e se dalla borsa unta dei guadagni del taverniere fosse uscita anche solo una piccola monetina a risarcimento di quella nostra violenta partenza.
Così cercai nel buio acre della mia nuova casa tutti i colori che mi portavo dentro, ma pian piano persi via via anche l’odore pulito dell’aria e della terra, dell’erba seccata e del fieno appena tagliato, del latte che cagliava aspro nel primo formaggio del mattino, dei fiori di camomilla appesi per i decotti. Entrò in me un unico odore indescrivibile, un flusso mischiato di memorie legate a gesti sempre uguali, che non riuscivo a togliermi di dosso: stesso cibo sempre uguale e molto scadente, dall’odore di sugo riscaldato proposto come nuova pietanza a nuovi ospiti affamati, stessa birra inebriante solo per l’alcol anonimo che conteneva senza gusto, stesse pelli che sapevano di cuoio e di fatica senza il riguardo di piacere ad una donna. Noi eravamo infatti solo femmine di taverna, non una conquista amorosa, ma un semplice acquisto temporaneo a cui nulla si doveva se non la fretta di un appetito veloce e transitorio che aveva perso la poesia del vento e dell’attesa, di quelle cavalcate notturne in cui tutti quegli uomini avevano forse pensato sognanti alla bellezza di giacere con una donna mentre ancora non l’avevano vicina. Ma ora, arrivati lì, col ventre sazio, la sete tolta e il sonno appresso avevano un solo chiodo fisso: togliersi l’ultimo, fisico bisogno… Mentre mi prendevano avidamente mi chiedevo sempre se ricordassero ancora il canto della loro madre, lo stesso odore di camomilla che portavo dentro io, il profumo del bucato, la luce delle candele notturne dove forse una nonna o una sorella maggiore raccontava loro storie di draghi e cavalieri, di principesse salvate e ricompense trovate… Dov’erano quei bambini con gli occhi sgranati che erano stati anche loro, con le loro paure che un padre non tornasse dalla guerra o con la tristezza velata di madri a casa che contavano i beni in dispensa con le rughe del viso sempre più profonde un giorno dopo l’altro. Come avevano dimenticato la loro delicatezza di bambini nel consolare il pianto di una madre disperata, il loro inventare giochi per farla ancora sorridere, come pure il trovare piccole cose nei campi per arricchire l’offerta grama di cibo della serata, al solo scopo di vedere ridere la loro sorella maggiore preferita che presto sarebbe andata in sposa e doveva rimanere bella per quel giorno da regina dentro alla piccola chiesa del paese…
Aldonza se lo chiedeva ancora mentre sciacquava in una tinozza di acqua poco pulita una pila di boccali sporchi. Quel giorno era particolarmente buio dentro alla taverna: per questo vide ancor più nitida una rozza figura di cavaliere, tutta bardata, stagliarsi nella luce della porta mentre entrava e dietro un secondo uomo, che dall’abbigliamento si sarebbe detto fosse il suo scudiero.
L’uomo, indescrivibile davvero se avesse dovuto tratteggiarlo alle sue compagne nell’unico momento di intimità serale quando per poco tempo erano libere di raccontarsi gli strani personaggi che quel giorno erano passati nella loro vita, si avvicinò al bancone dove lei, sola, armeggiava in quel momento.
La guardò con rispetto, con uno sguardo che mai più avrebbe scordato in tutta la sua vita: non esistevano sguardi simili lì dentro, come non esistevano nobili tappezzerie, tende di broccato o profumazioni francesi addosso agli avventori o alle stesse ragazze. Quello sguardo era una terra straniera, arrivava da un altro mondo che non conosceva. Aldonza si chiese subito se finalmente fosse stata esaudita e fosse arrivato quel qualcuno che ricordava in sé i fiori di camomilla e il sorriso della propria madre… Ma non era così: non era residuo di umanità rimasta in quell’uomo, non era gentilezza naturale in un’indole miracolosamente preservata dalla rozzezza. Lo riguardò col fiato sospeso per lo stupore, e di nuovo lui senza parlare le rimandò una sguardo che, per la prima volta, la rivestiva delicatamente e non la svestiva come sempre accadeva, uno sguardo che le diceva quanto valesse per lui, che onore fosse incontrarla, che dono quel giorno gli avesse fatto la vita nel presentargliela davanti.
Rimase sconvolta, al punto da non capire neanche le parole ampollose e impostate che lui iniziava a dirle, e sullo sfondo la mimica strana di quel particolare scudiero che invece di enfatizzare le parole del suo cavaliere, con evidente espressività, cercava di minimizzarne il discorso quasi a dirle di non farci caso, che non stava succedendo niente. Lo stupore in lei era tale che la paralizzava e solo sentì dirgli: “la mia Dulcinea…”. Dulcinea, ma perché l’aveva chiamata così? Chi era Dulcinea del Toboso?Per quale donna dunque l’aveva scambiata quell’uomo? Che delusione, cominciava a pensare, quello sguardo dunque non era per lei! Eppure lui ora le stava ancora sorridendo anche mentre lei lo invitava a sedersi per essere servito col suo scudiero ad un tavolaccio. E lui sempre la guardava, la guardava, la guardava avvolgendola tutta. Aldonza, o meglio Dulcinea, sentì che qualcosa cominciava a sciogliersi dentro di lei: non sentiva altro attorno a sé, se non quello sguardo che la isolava sapientemente da quel posto che consueto le si appiccicava addosso come un destino di condanna o una vestaglia sdrucita recuperata a caso per salvare un suo ultimo estremo pudore.
Lei Dulcinea, una principessa agli occhi di quell’uomo, che capiva bene quanto avesse la mente turbata da strane visioni in cui lui solo sembrava abitare: ecco perché il suo scudiero sempliciotto e realista sembrava difenderlo standogli alle spalle e smontando a smorfie l’eloquenza dichiarata delle sue visioni. Eppure quell’uomo era vivo di fronte a lei e le chiedeva implicitamente di mettere il piede dentro alla nuvola di una sua visione amorosa, in cui lui era il cavaliere e lei la nobile principessa per cui egli era disposto a rinunciare a tutto pur di difenderla. Dulcinea, le aveva scelto anche un bel nome, che conteneva il seme della dolcezza e la musicalità delle favole cortesi; era stato gentile quel cavaliere folle a farle tale regalo di vita in quel giorno, in quel momento, quando la pila dei bicchieri sporchi sembrava toglierle ogni sentimento dal cuore e ogni possibile rigurgito dall’anima: stava diventando, quasi senza accorgersene, solo mani che pulivano, narici impregnate di tanfo, membra pronte per essere toccate senza amore. Dulcinea, sembrava il nome di una sposa, una principessa sposa … Senza accorgersene, mentre con sforzo immenso si apprestava a portar loro la solita pietanza riscaldata, si rese conto di toccare a tratti il suo corpo stordito, la sua scollatura mal celata da uno straccetto di pizzo scuro che doveva risultare lascivo e attraente. Si sentiva, quasi senza saperselo spiegare, ricoperta di un abito di fine broccato e sulla fine grana del suo petto sentiva pesare la finezza cesellata di un diadema appena indossato per essere pronta ad una presentazione regale.
E soprattutto si sentiva diversa dentro: sapeva di non essere una principessa, lei non abitava il regno della follia come quel cavaliere dalla “trista figura” che le si era parato innanzi quel giorno. Come pure sapeva di non essersi rifugiata in un sogno irreale per poter scappare dalla sua sordida quotidianità: da tempo aveva imparato a non fuggire in mondi irreali e finti che poi, al suo ritorno dopo l’evasione, le avrebbero fatto sentire maggiormente lo squallore di quel quotidiano. Era cambiata invece, in pochi minuti, solo grazie a quello sguardo vellutato e profondo, la percezione che lei stessa aveva di sé, oltre tutto e oltre tutti.
Avrebbe potuto sentirsi una figlia di re oltre la crudezza di ciò che doveva vivere e forse, lo diceva ammiccando, come fossero paggetti e damigelle, alla fila di stoviglie sporche che doveva sparecchiare, poteva trovare una dignità nuova in ogni suo gesto quotidiano e svilito. Avrebbe rivestito di velluto la sua ruvida dimensione giornaliera proprio grazie ad un cavaliere, sconosciuto e nuovamente in partenza, perché aveva avvertito nell’immensità di un battito il rumore della sua anima bella, del palpito del suo cuore pieno di coraggio, del muoversi regale delle sue mani, del sentirsi viva dentro alle sue vesti brutte, del suo alzare e abbassare a sua volta uno sguardo autonomo e rivelatore. Ora, quella fecondità di madre alla quale forzatamente doveva rinunciare, si sarebbe trasformata in potere di generazione nei confronti di tanti uomini tristi che, a Dio piacendo, avrebbero potuto cogliere tra carezze impetuose il potere salvifico del suo sguardo che garantiva: tu sei qualcuno oltre le tue sconfitte ed i tuoi tradimenti, tu esisti perché io ti guardo per farti esistere. Questo il regalo che le aveva lasciato il cavaliere folle, questa Dulcinea ora lo vedeva ripartire senza rimpianto, questa principessa ora creava un tempo in cui attendere quella promessa di una conquista che l’avrebbe salvata dalla segregazione in una torre, da un drago feroce, da un promesso sposo troppo anziano, da un corpetto logoro che le andava troppo stretto e le era stato buttato senza cura sul letto con uno sgarbato “metti questo!”. Metti questo, Dulcinea, mettiti il mio sguardo…