Mi avevano sempre detto di parlare fin da quando ero bambina: “Parlaci, forza, dicci cosa sai!”. Prima i miei compagni, i figli degli altri schiavi, che si erano accorti di come indovinavo sempre per prima nei nostri giochi, di come sapevo cosa ci fosse sotto il tappeto vecchio che usavamo da nascondiglio, di quale animale catturato con la fionda fosse la pelle che veniva mostrata dai ragazzi più grandi e coraggiosi… Ma anche si stupivano di come indovinavo i sentimenti che provavano, come li leggessi nei loro corpi trasparenti simili a vasi di vetro dove i pensieri di rabbia, invidia o gelosia a me parevano chiari prima ancora di apparire in un dispetto che io sapevo abilmente prevenire per avvertire subito le mie compagne perché si difendessero.
Così i miei genitori: con imbarazzo sommo cominciavano a capire che io ero diversa, che non dovevo ascoltare solo la loro voce da sempre fin da piccola, ma che mi abitavano anche altre parole di cui non conoscevano l’origine ma erano parole fulminee che precedevano i cieli, gli eventi e i sentimenti. Parole comode per prevenire le disgrazie, ma anche parole ingombranti quando le vicende non si potevano evitare e si sapeva già prima che sarebbero state funeste… Ricordavo ad esempio quella volta in cui la mia zia più giovane, sorella di mia madre, doveva salire nelle cucine come tutte le mattine: era una schiava… Ma come si poteva sopportare che anzitempo io sapessi che quel giorno le sarebbe accaduto ciò che mia madre non poteva digerire: le attenzioni del vecchio padrone, gli eccessi rivolti alla sua bellezza giovane ed ardente, il togliere ogni potere ad una schiava che, inerme, non avrebbe avuto la voce per difendersi… E mia madre di sotto, impotente, che sapeva tutto, sulla base di quelle mie parole, estorte per caso a colazione.
Capì allora, all’età di dodici anni, che quel mio dono mi avrebbe rovinato finchè un giorno un uomo mi avrebbe liberato: l’avevo visto e già io lo sapevo. Un uomo buono, rapito dal Suo Dio, avrebbe zittito la mia voce che ora era tanto prepotente e aveva un ritmo dominante.
La voce allora diceva l’imminente,
sgradevole e saccente nel suo tono,
terribile e spietata nel suo senso
di quando c’è un’anticipazione
pesante nel togliere il respiro.
La voce mi disturbava tanto
e poi fu tutta la mia fama
che presto fu raccontata in alto,
per caso di fronte ai miei padroni.
Ricordo, mi fecero chiamare,
mi chiesero soltanto cose loro
che poi sarebbero successe:
gli affari, i matrimoni andati,
le cose passate nella casa,
che erano segreti di famiglia,
che io mai avrei saputo
narrare senza quell’aiuto
di un gracchiare rotto e strano,
che in me pareva di un uccello
rapace nel cuore della notte.
Capirono che io ero preziosa
e fonte proficua di un guadagno
più ampio che commerciare in vasi
o anche in terracotte varie:
mi aprirono in fondo alla bottega
lo spazio di una stanzetta nuova,
velata da tende di damasco
che davano la veste di prezioso
a quelli che entravano nel turno
che uno di fuori stabiliva.
Chiedevano ogni genere di cosa:
amori, desideri, acquisti,
perfino i prezzi di una casa
o anche di una giovenca nuova…
Spremevano e la voce raccontava,
strozzandosi in fondo ai pomeriggi
dove mi rimaneva appena
il fiato per un sorso d’acqua.
Di giorno lasciavano che uscissi
in piazza per offrire a tutti
il dono, pur sempre da pagare,
di quello che sapevo dire.
Fu lì che vidi Paolo e Sila,
gli uomini di un Dio troppo diverso
da quello adorato dai padroni.
E dentro la voce mi scavava
e fuori ripeteva solo
che erano due servi dell’Altissimo,
e da loro veniva la Salvezza.
Non davo un senso alle parole
e in fondo più non le capivo
più forte poi le ripetevo,
strisciando e seguendo i loro passi
da cane che sa far la punta.
Un giorno Paolo si è girato:
ho visto la sua contraddizione
di uomo che sa intravvedere…
Mi ha preso piano piano per un braccio
e forte mi ha ripetuto in volto
la forza di una liberazione,
rivolta non tanto a me persona
ma solo al fiotto della voce:
«In nome di Gesù Cristo ti ordino di partire da lei».
Sono caduta a terra, come strattonata da uno che esca precipitosamente sbattendo la porta di una stanza che desidera solo lasciare. Il ritmo, ossessivo da anni, era cessato. Non si era fermato però il battito del mio cuore, ma solo il metro di quel canto epico e improprio che non mi apparteneva, lira di un altro maestro che detestavo. Non sentivo dentro più parlare nessuno, anche se tante voci fuori di me continuavano a ciarlare, e a commentare il fatto prodigioso che Paolo, l’apostolo del Cristo, aveva appena compiuto… Il Suo compagno, Sila, lo guardava stupito, forse anche un po’ preoccupato, per il gesto forte che aveva appena fatto: sapeva bene quanto si sarebbero infuriati i miei padroni, subito chiamati dalle donne della casa perché la serva indovina ora non sapeva più dire nulla. Ebbi paura: mi raccolsero da terra i miei padroni, mi fecero domande a cui io non sapevo più dare la minima risposta… Cominciarono ad accusare me e soprattutto i due uomini, Paolo e Sila erano i loro nomi, li sentivo chiamare e precipitosamente li vidi trascinare davanti ai capi della città, per l’ingiustizia che avevano compiuto: togliere un’onesta fonte di guadagno a una degna famiglia della città. Li sentì accusare del fatto che fomentassero disordini pubblici, dire menzogne sul loro conto e sulle nuove pratiche che diffondevano. Con dolore sommo li vidi mentre li spogliavano e li bastonavano pubblicamente prima di chiuderli in carcere come sobillatori pericolosi… Ero tra la folla che osservava tutto questo, straziata perché pagavano di persona non solo il prezzo della mia liberazione ma anche quello della mia libertà interiore, anche se fuori rimanevo una schiava. Fu allora che nel mio cuore non sentì più quel singolare silenzio che era sceso dopo l’accadere del fatto, ma udì nascermi dentro una nuova dolcissima voce:
Tu sei preziosa,
tu mi appartieni,
tu sei figlia di Re.
Loda il tuo Dio,
che ha fatto per te
cielo e terra,
con parole di donna…
Ringraziai quei due uomini, nel mio cuore, perché ora un nuovo Maestro istruiva il mio cuore senza farne mercato.