“L’intenzionalità…” (post del Blog GTK, 22 novembre 2014)
[…] Se il terapeuta avesse letto gestalticamente il gesto della paziente come asimmetrico (il contesto lo richiedeva), l’avrebbe eventualmente accolto e ricambiato: in un contesto asimmetrico – come quello della terapia e dell’ipnosi – l’abbraccio della paziente esprime infatti unicamente il tentativo, forse maldestro, di un contatto fisico affettuoso con un uomo che si sta prendendo cura di lei e non ha (e non può avere) intenzionalità seduttive paritarie. Nel contesto non-paritario, infatti, la seduttività rappresenta – ne è riprova la ‘sindrome di Stoccolma’ – uno dei tanti modi di proteggersi dalla paura e dal rifiuto di chi sta in posizione up. Il terapeuta che attribuisse intenzionalità erotico-paritaria ad una paziente mostrerebbe un preciso disturbo nella propria funzione-Personalità del Sé, in quanto si collocherebbe in un altro contesto (quello del partner paritario). Paradossalmente, se l’abbraccio della paziente, come sostiene la GT, fosse stato accolto in modo asimmetrico ed eventualmente corrisposto, la terapia avrebbe (finalmente!) compiuto un progresso notevole. Per la GT compito della terapia è portare a compimento le interruzioni dei vissuti corporeo-relazionali che creano il disagio psichico: la paziente accolta avrebbe imboccato la strada del completamento di un gesto relazionale che, a suo tempo interrotto, aveva poi creato non pochi disagi psichici e relazionali, poiché quella paziente – è bene ricordarlo – non voleva abbracciare il padre, ma proprio il terapeuta, e cioè quell’uomo che in quel preciso contesto si stava prendendo cura di lei ‘paternamente’.
(Giovanni Salonia, La luna è fatta di Formaggio, Il Pozzo di Giacobbe, 2014, pp. 46-47)
“La casa dei doganieri”
Tu non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla scogliera:
desolata t’attende dalla sera
in cui v’entrò lo sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più lieto:
la bussola va impazzita all’avventura
e il calcolo dei dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la tua memoria; un filo s’addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma s’allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui respiri nell’oscurità.
Oh l’orizzonte in fuga, dove s’accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui? (Ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende …)
Tu non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi resta.
(Eugenio Montale, “Le Occasioni”)
Colpisce particolarmente, nel racconto tratto dalla stessa Autobiografia di Freud sopracitata, la definizione di “penosa” data dal grande maestro alla possibile chiarificazione in seguito al gesto di una paziente, definita “una delle più docili”… Già questo potrebbe creare un certo imbarazzo e anche un certo orrore, a tratti gestito. Tutto il quadretto di questo splendido risveglio della paziente e del suo desiderio di abbraccio, subito poi trasformato in un’evitata chiarificazione per la fortunata entrata di una domestica dà sinceramente i brividi… non si può evitare la fatica di quella ragazza che si propaga in chi la ascolta, ancora una volta “docile” in seguito nell’acconsentire che venissero sospese le sedute di ipnosi, dal racconto tanto benefiche ed efficaci, fino a quando non si fosse inserito con buonagrazia di tutti la figura del padre assente, ma “presente”, quale sereno destinatario dell’abbraccio tanto incriminato…
Lungi forse dal riuscire a capire la valenza scientifica di questo episodio così significativo, potremmo fermarci solo ad una immedesimazione con la paziente e alla sua relazione con la figura del terapeuta (qui Freud, direi poco…).
E per farlo si potrebbe riprendere tra le mani La casa dei doganieri di Montale, sicuramente una delle poesie più note de “Le Occasioni”. La lettura, senza dubbio un po’ ardita ma sicuramente spontanea che ne è nata, è però stata profondamente consolante. Se il poeta, l’io parlante, è nell’accostamento con l’episodio Freud stesso, il tu della poesia è la paziente…
Originariamente nella poesia è probabilmente una ragazza, una villeggiante amata da Montale e morta prematuramente, quell’Annetta a cui si rivolge anche in molte altre poesie.
Se poi la poesia è tutta intessuta sul tema del recupero della memoria, potremmo accostare la cura con l’ipnosi (di fatto la terapia) con la vecchia casa dei doganieri da cui esce lo sciame dei pensieri della ragazza, vi sosta e vi esce irrequieto. Riempie di gioia pensare alla terapia come il luogo dell’irrequietezza massima accolta, ma con finestre aperte, una casa vecchia, nel buio, che non ha presunzione di essere sempre casa accogliente al sole… è la casa di ogni tempo, in cui i pensieri entrano ed escono liberi. Freud nel racconto accenna che quella seduta era avvenuta proprio in un giorno in cui “la liberai della sua sofferenza…”, un giorno importante come probabilmente lo scambio (qui poco importante che fosse stato amoroso) tra il poeta e la ragazza, quando erano entrati insieme in quella casa e un contatto profondo era avvenuto tra loro e col luogo stesso, forse lo sfondo ideale di un momento irripetibile…
Inizia qui infatti, nella poesia, un affannoso ed impossibile recupero della memoria attuato dal poeta, punteggiato dai tanti meravigliosi emblemi montaliani: la bussola impazzita, il calcolo dei dadi che non torna, la banderuola affumicata che gira all’impazzata… Forse simboli, a volte, anche della fatica di un terapeuta ad orientarsi nei confronti dello “sciame di pensieri” di un paziente, simboli da gestire nella propria intimità senza dover necessariamente parlare di contro-trasfert, simboli di una ricerca di filo rosso che sempre “si addipana” quando ci si prende cura di qualcuno che è confuso, e se è ancora presente fisicamente in terapia, forse può a tratti sparire interiormente come l’Annetta della poesia…
Il dramma centrale, però, si apre con il “tu resti sola, né qui respiri nell’oscurità”. Al risveglio, all’apice della spinta al confine di contatto, che la paziente sperimenta nel desiderio di abbracciare la figura che “paternamente” si sta occupando di lei, Freud la lascia sola, come forse Montale, spero non troppo ardito pensarlo, lascia sola Annetta non riuscendo a raggiungerla più con la sua memoria capace di eternarla… (siamo ormai molto lontani dal recupero romantico foscoliano e da quella memoria-speranza che eterna nei Sepolcri). Manca, qui, il respiro nel buio, dice il poeta, e manca il respiro forse anche alla paziente rifiutata o “mal abbracciata”… Manca il respiro che forse si poteva donare con un Varco aperto! E se Montale si chiede, quasi disperato, ancora una volta “il Varco è qui?”, quel “frangente ripullula”, cioè Freud doveva capire quanta energia c’era in quell’abbraccio e non l’ha capito . Era quell’abbraccio non un, ma il varco preferenziale per riannodare il filo di cui la paziente, questa volta, tiene ancora il capo, il filo dei suoi gesti relazionali “interrotti”… E non serve un padre invadente evocato, né tantomeno confondersi ulteriormente scambiando il terapeuta per padre…
Perché quella chiusa, drammatica per Montale “Ed io non so chi va e chi resta”, sarebbe invece stata la grande occasione di Freud, dopo aver ricambiato un vero abbraccio, di capire con chiarezza come lasciar andare il padre della ragazza e come restare lui stesso, sapendo di essere “quell’uomo che in quel preciso contesto si stava prendendo cura di lei paternamente”. Leggendo più oltre rispetto al passo sopra citato si aggiunga: “Dopo avere abbracciato il terapeuta… la paziente avrebbe potuto abbracciare il padre: come un’esperienza altra, sul registro della pienezza e non più su quello dell’integrità”…. Quell’integrità della memoria e del recupero che sfugge a Montale, in quell’orizzonte solo puntato dal faro intermittente della petroliera, però sempre ricercato senza la presunzione di ricostruire un tutto (integrità), ma sempre nell’umiltà di recuperare un capo del filo (pienezza). Il filo di una terapia, il filo di un gesto relazionale riannodato…e pieno!