Leggendo Atti degli Apostoli 10,1-48
Erano le sere d’estate che piacevano a Cornelio, quelle in cui la coorte si accampava dopo le marce estenuanti della calura del giorno e lui, suo centurione, poteva sentirne quasi il respiro come di corpo steso, spossato, sdraiato a riposare. Era così che immaginava la sua coorte, come un corpo maschio addestrato, coi muscoli dolenti per l’eccessivo sforzo, induriti nel tempo della sosta, ma rilassati nel ritmo del respiro ancora all’unisono del passo della marcia tenuto durante il giorno. Un battere e un levare della vita, dove la sua mano di comandante sfregava un polpaccio indurito come a rinfrancarlo, strofinava un graffio quasi a cancellarlo, lavava la pelle abbrustolita dal sole e dalla troppa polvere raccolta sulla strada. Quel corpo di uomo, la sua coorte, era fatta dai tanti volti e corpi dei suoi sottoposti, che non poteva dire di amare come fratelli, questo era un concetto che ancora non capiva, ma che inglobava in sé come testa di un corpo che doveva rispondere ad ordini più alti di lui… Di quel corpo fatto di corpi lui era responsabile, nelle loro stanchezze, nelle loro vigliaccherie, nei loro affanni e nelle loro prepotenze pericolose che avrebbero messo in pericolo non solo il singolo, ma tutto l’insieme, se lui non avesse ascoltato ogni respiro serale, per poi aver il polso di tutto nel giorno successivo, in marcia e sul campo di battaglia.
Questi pensieri faceva Cornelio, il centurione, in quel tempo di riposo che gli era concesso nella sua casa presso la sua famiglia, a Cesarea: si stupiva di trovarsi così preso dal pensiero dei suoi uomini, proprio ora che avrebbe invece avuto ogni consolazione solo dal vedere l’inquieta bellezza del sorriso dei suoi figli adolescenti, la spensieratezza dei suoi bambini più piccoli, la serena gioia di sua moglie che assaporava questa rara convivenza con lui, come se quei momenti fossero tutti tanti gioielli che lui le avesse portato come bottino di guerra al suo ritorno.
Eppure, ultimamente, si ritrovava inquieto, con pensieri ricorrenti e densi sul senso della vita, non solo la sua, ma quella dei suoi uomini, dei suoi familiari, dei suoi amori presenti e passati. Sentiva di aver bisogno che quel respiro, che calcolava come pacchetto d’aria per i suoi polmoni sufficiente alla marcia e all’assalto del nemico, diventasse anche un luogo di consolazione e di apertura di orizzonti. Ecco, ora lo capiva, le sere d’estate erano anche struggenti momenti nell’indugiare dell’ora di luce che non vuole finire; se lo chiedeva, Cornelio, quanto sarebbe durata la luce del suo giorno, e dopo, una volta sopraggiunto il buio, cosa sarebbe accaduto. Ma poi, lo chiedeva a se stesso o a un qualche dio glorioso a cui non sapeva ancora dare un nome? Sapeva da tempo di non rivolgersi più agli antichi dei patrii, quelli a cui sacrificare primizie prima sugli altari della grande Urbe, poi nelle meravigliose città fondate nelle Province: i templi di Giunone, Artemide, Venere o Marte… No, non erano più loro i suoi referenti, gli interlocutori di quel dialogo interiore continuo, eppur sconnesso, che gli toglieva la pace e gli faceva fare elemosine ai poveri con uno slancio che non capiva, che gli faceva sentire il non senso di offrire vuoti sacrifici ad oscuri signori silenziosi che non rispondevano mai alle sue domande più vere. Sì, perché Cornelio lo sapeva: lui con Dio cercava un dialogo vero, come la preghiera dei Giudei che avevano secoli alle spalle di dialogo col loro Signore, tramite illustri profeti come Elia o Mosè, ma anche più semplicemente con grida di gioia o di dolore nei salmi, le loro poesie “sacre”, o in quegli spasmi di cielo che erano le preghiere in sinagoga dove il rotolo della legge veniva letto e raccontava storie di autentico amore tra un Dio potente e il suo popolo. Un popolo spesso ribelle ma anche un Dio castigatore, un popolo bambino e diseducato ma anche un dio tanto geloso e innamorato della sua creatura da volerla salvare a tutti i costi… Questo lo commuoveva profondamente, e quando nessuno lo vedeva sentiva lacrime calde rigargli il viso cotto dal sole: anche lui voleva un dio così, lo voleva per sé e per la sua famiglia, lo voleva per i suoi uomini che sentiva di amare profondamente anche se non poteva ammetterlo neanche con se stesso, per paura di essere giudicato debole e incapace di gestire il comando su di loro. Voleva piangere davanti a Lui, voleva chiamarlo padre, raccontargli ogni suo sconforto, ma anche ogni sua aspirazione profonda: era questa dunque quella preghiera di cui da tempo sentiva parlare, di cui capiva che altri uomini erano intimamente nutriti e fatalmente presi? Quindi, quel giorno, sentirsi chiamare per nome da quello strano uomo tutto lucente non fu strano per lui nell’ora meridiana: quell’uomo era arrivato proprio quando il suo bisogno di Dio era un rantolo sotterraneo che non gestiva più. Mentre lo ascoltava disse a se stesso che, chiunque fosse, quel Dio era molto buono e aveva dato l’ordine di rispondere al suo bisogno in quel preciso momento che lui sapeva come di solito servisse per sbloccare un passaggio, per ribaltare le sorti di una battaglia, per mettere in fuga un drappello insperato. E in fondo coerentemente l’uomo gli aveva dato solo ordini, e lui era abituato da sempre ad obbedire, non solo a farsi obbedire: doveva mandare a cercare un certo Simon Pietro, verso Giaffa, addirittura uno che viveva ospite in casa di un altro. Troppe domande gli si affollavano nella mente: perché, a quale scopo, chi era costui… non certo un ricco, dato che era a casa di altri. Ma intanto una gioia dirompente gli esplodeva dentro: dio, quel suo dio nuovo tanto cercato, aveva risposto, mandava messi, inviava ordini, aveva un piano… un piano d’attacco, per caso un piano per “attaccare” lui e sedurlo nel bene, farlo impazzire d’amore e diventare suo alleato per sempre! Impazzire d’amore: ma cosa gli stava accadendo, quelle erano parole da donne non da uomo, da centurione quale lui era? Si trovava a sorridere da solo, di nascosto da tutti, in stanze vuote della casa, nei giorni in cui aspettava che i suoi messi tornassero con quel Pietro. Era libero ormai, libero di desiderare nel modo in cui lo fa un uomo, ma lo fa anche una donna, quel dio lo aveva capito e dentro di sé avrebbe potuto amarlo con una passione tale che fuori poteva esprimersi solo nel furore maschio che possiede una donna, povera cosa senza quell’amore totale che ora sentiva dentro per il suo Dio che stava arrivando. Sarebbe accaduto in quell’incontro con un uomo annunciato, quel Pietro nuovo di cui immaginava l’aspetto. Fu quando giunse che cadde a terra e non ebbe, dapprima, la forza di guardarlo: fu la sua voce di uomo rude a ridargli una forma in quell’incontro: “Alzati, anch’io sono un uomo”! Un uomo, è vero, aveva tanto aspettato Dio da dimenticarsi che avrebbe incontrato solo un suo annunciatore, ma capì presto che era anche uno che quel Dio lo aveva vissuto, amato, tradito. Tre volte! Ebbero modo di stare insieme, di raccontarsi: tre volte, quell’uomo sembrava prigioniero del numero tre…
Tre volte lo aveva tradito prima che il gallo cantasse nella terribile notte in cui il Signore era stato catturato e torturato, tre volte il Signore gli aveva chiesto se lo amava realmente, tre volte infine gli aveva raccontato di aver visto in una recente visione, a Giaffa, una strana tovaglia colma di ogni genere di animali salire e scendere dal cielo… E dopo il tre Dio parlava, ogni volta, potentemente nella vita di quell’uomo! Cornelio era incantato, non solo dalla storia incredibile della conversione di quell’umile pescatore che aveva davanti, ma soprattutto dalla straordinaria perseveranza di un Dio Signore che sceglieva il numero giusto per convincere ogni uomo. A Pietro, di fronte a quella tovaglia ricolma di animali misti tra cui orrendi rettili, aveva ingiunto “Uccidi e mangia”, perché tutto diventa puro ora… A lui, povero centurione di provincia ormai, aveva detto: manda a chiamare un uomo, io sono un dio, come uno è il corpo di coorte di cui sei capo… Uno, era l’uno il suo numero: perché uno sarebbe stato il suo dio per sempre da ora in poi, non più tanti dei. Una la purezza che gli conferiva Pietro nell’entrare nella sua casa di pagano e nel rivolgersi a lui, impuro rettile di quella tovaglia sacra, a cui veniva rivelata la Verità mentre lo Spirito inondava tutti nella sua casa, lui e i presenti che gli erano tanto cari.
Una infine la lingua nuova che gli uscì dalle labbra, dopo il battesimo: non gli idiomi strani dei tanti popoli sottomessi che aveva incontrato, ma qui una lingua di lode, come un arcaico senso che risaliva da luoghi antichi della sua infanzia dove le cose gli si svelavano ancora piene di una poesia.
Una la confidenza nuova di fratello che lo univa a Pietro, il circonciso ora cristiano, a cui il Signore aveva detto: “ti farò pescatore di uomini”. E lui era Cornelio, il centurione pagano: riunificato animale di quella tovaglia sorretta, lui pesce, rettile, quadrupede e uccello: unico animale di Dio, amato e ammesso nel Suo recinto di una coorte.